Nel 2020 conciliare i tempi di vita e lavoro è stata un’impresa ancor più ardua del solito, soprattutto per i genitori. Le nostre case si sono trasformate in uffici, ma anche in scuole per chi ha dei bambini. In Italia con la nuova Legge di Bilancio 2021, sono aumentati da 7 a 10 i giorni di congedo di paternità obbligatori e remunerati al 100%. Certo, un piccolo passo avanti, ma è ancora tanta la strada da fare se si pensa a quello che succede nel resto d’Europa. Nel 2019 una direttiva dell’Unione Europea ha provato a disegnare delle linee comuni con riferimento all’equilibrio tra tempi di lavoro e vita privata. Tra gli argomenti presi in considerazione non potevano mancare il congedo di maternità, di paternità e parentale. Nonostante il quadro comune però le differenze tra un paese e l’altro sono ancora notevoli. Vediamone alcune.

La Spagna al primo posto: stessi permessi per mamme e papà

A far meglio, e non solo in Europa, è la vicina Spagna. Dall’1 gennaio 2021 infatti i giorni di congedo sono equivalenti per entrambi i genitori. Sia le mamme che i papà hanno diritto a 16 settimane di congedo, non trasferibile e pagate al 100%. Di queste le prime 6 sono obbligatorie subito dopo la nascita del bambino, mentre le successive 10 sono facoltative e i genitori potranno scegliere se utilizzarle a tempo pieno o part time. Si tratta di una decisione che incoraggia a ripensare la genitorialità in termini attuali e affini alle nuove sfide sociali, che vogliono entrambi i genitori coinvolti nella cura del figlio sin dai primi giorni di vita. Ma non solo. Sostenere l’uguaglianza di genere in termini di diritti e doveri della genitorialità significa anche ridurre quel gap ancora troppo ampio che nel mondo del lavoro vede donne e uomini in due lati opposti della barricata.

Gli apripista del Nord

I paesi scandinavi, da sempre all’avanguardia per tutto ciò che concerne il sostegno alla famiglia e più in generale all’equilibrio tra tempi di vita e di lavoro, si difendono molto bene. In Norvegia i papà possono beneficiare di quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% o 56 settimane all’80%. Si tratta di 12 settimane per la mamma, 12 per il papà e il resto da dividere fra i due. Nella vicina Svezia ogni genitore ha diritto a 12 mesi di congedo da condividere, ma sono obbligatori almeno due mesi a testa. In Danimarca invece c’è ancora una certa differenza tra il congedo concesso alle mamme e quello per i papà, su un totale di 52 settimane infatti, 2 sono del papà, 14 della mamma, il resto da spartire in modo equo. Menzione speciale invece per la Finlandia, che come sappiamo ha annunciato da tempo la decisione di equiparare i mesi di congedo fra mamma e papà: e proprio il 2021 sarà l’anno che vedrà anche qui l’applicazione di questa riforma. Non solo. Nei paesi scandinavi ricorrere al congedo di paternità e poi a quello parentale è più che normale. Bastino le percentuali da record della Norvegia: la quota dei papà che ne hanno beneficiato ha superato il 90%. È un esempio di successo di come le politiche progressiste, affiancate dalla diffusione di una cultura improntata all’’uguaglianza di genere, possono contribuire positivamente al benessere delle famiglie e alle condizioni delle mamme lavoratrici.

Il modello tedesco

Protagonista della riforma del congedo parentale tedesco è l’attuale presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Madre di ben sette figli e all’epoca Ministro della Famiglia con un governo conservatore, decise all’epoca di attuare la riforma voluta dai socialdemocratici. Ed è così che in Germania si ha diritto a 12 mesi di congedo parentale che diventano 14 se ne beneficia anche il papà (per almeno due mesi) e con una retribuzione pari al 67% dello stipendio (in un range cha va da un minimo di €300 a un massimo di €1800 e che si abbassa al 65% per gli stipendi medi, ovvero quelli superiori a €1200). A differenza di quanto accade nei paesi del Nord, è curioso però notare come sono ancora pochi i papà che decidono di beneficiare dei mesi di congedo parentale, oltre ai canonici 2, in alternanza alla propria partner. Chiacchierando con una coppia di genitori italo-tedeschi che vivono a Berlino, ho scoperto infatti che la cura del piccolo e le conseguenze professionali di una prolungata assenza dal lavoro sono aspetti che riguardano quasi sempre solo la donna. È vero che i primi due mesi di vita del bambino spesso vede presenti entrambi i genitori, ma nella maggior parte dei casi sono vissuti come una piccola parentesi vacanziera per poi tornare alla vita di tutti i giorni, dove è la mamma a vivere la quotidianità del bambino. È quindi evidente che la differenza viaggia su un divario culturale, prima ancora che normativo.

Francia, ovvero “avanzare con lentezza”

Nel 2002 la Francia aveva aumentato il numero di giorni per il congedo di paternità, senza però poi continuare sulla strada delle riforme per i congedi parentali. Recentemente il presidente Macron ha parlato di raddoppio del congedo di paternità da 14 a 28 giorni retribuiti, di cui i primi 7 obbligatori. È importante notare la disparità di utilizzo che viene fatto del congedo di paternità qui da parte dei lavoratori: a usufruirne sono soprattutto i papà con un lavoro stabile e i dipendenti pubblici in percentuale elevata, ben l’88%.

E l’Italia? Praticamente non classificata

È decisamente imbarazzante pensare che in Italia il congedo di paternità è una conquista recentissima. Prima del 2013 non esisteva neanche: si trattava di una sorta di congedo sostitutivo a quello materno che il papà poteva prendere solo in caso di morte o grave infermità della madre, di abbandono da parte della madre o di affidamento in via esclusiva al padre. Oggi in Italia i papà hanno diritto a 10 giorni di congedo obbligatorio retribuito. Rispetto al congedo parentale invece, ci sono 10 mesi da ripartire tra i due genitori entro i primi 12 anni di vita del bambino. I mesi diventano 11 se il papà usufruisce di almeno tre mesi (continuativi o frazionati).

Quali sono i problemi del nostro paese

I limiti, però, sono evidenti. Anzitutto il congedo viene meno se il rapporto di lavoro cessa all’inizio o durante il periodo di congedo. Questo significa che in un momento di estrema fragilità che vede la nascita di un bambino congiuntamente alla perdita del lavoro, la situazione viene acutizzata anche dalla perdita dell’indennità di congedo parentale. Inoltre, al contrario di quanto accade negli altri paesi europei, in Italia si percepisce solo il 30% della retribuzione media giornaliera entro i primi sei anni di età del bambino. Sul sito dell’Inps si spiega inoltre che dai 6 agli 8 anni di vita del bambino, è possibile mantenere questo importo se “il reddito individuale del genitore richiedente è inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione ed entrambi i genitori non ne abbiano fruito nei primi sei anni o per la parte non fruita anche eccedente il periodo massimo complessivo di sei mesi”. Un calcolo abbastanza complesso, che tanti genitori rinunciano a farlo in partenza. Non stupirà dunque che dagli 8 ai 12 anni di vita del bambino il congedo non è retribuito. Infine, non esiste per i genitori la possibilità di verificare i giorni di congedo richiesti e sapere quanti ne rimangono: devono fare questi calcoli da soli nella speranza di non sbagliarsi. Il datore di lavoro non è tenuto a farlo e sul sito dell’Inps, pur entrando nel proprio profilo, si ha solo un quadro del periodo di riferimento (inizio e fine), ma senza il computo di festività, ferie e giorni di riposo.  Lo stesso congedo parentale straordinario (messo in atto per l’emergenza Covid-19) ha mostrato tutta la miopia delle istituzioni rispetto alle reali esigenze dei lavoratori con figli. Nonostante le scuole siano restate chiuse a lungo (e alcune lo sono ancora oggi), il permesso era di appena 15 giorni, poi esteso a 30. La retribuzione? Il 50%. Un prezzo che molte famiglie non potevano permettersi. “A questo punto è più conveniente la cassa integrazione”, è stato un commento frequente.

Una questione di importanza cruciale

Il congedo di paternità, e più in generale la questione dei congedi parentali, è una di quelle cose che impattano diverse sfere del vivere privato e sociale. Coinvolge la salute del bambino, la salute delle mamme, specialmente dopo il parto, un diritto troppo a lungo negato ai papà, la felicità di tutta la famiglia. Ma si tratta anche di combattere la disparità di genere, di guardare ai diritti e doveri dei genitori indipendentemente dal genere stesso e dall’orientamento sessuale. E ancora, è anche questione di aiutare le donne a superare tutte le difficoltà con le quali sono costrette a scontrarsi nel momento in cui vogliono lavorare ed essere madri. Due cose che purtroppo oggi, se non si escludono a vicenda, entrano troppo spesso in conflitto. Serve un passo deciso in avanti: da parte delle istituzioni, e ancora prima, dei singoli, chiamati a essere i primi protagonisti di un cambiamento culturale.